Donna e progettista: un binomio possibile. Intervista a Monica Foglio Stobbia, Project Engineer
Secondo gli ultimi dati pubblicati dal Portale Unico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in Italia sono circa 495.000 i ragazzi che scelgono di intraprendere un percorso scolastico all’interno degli Istituti Tecnici Tecnologici. Di questi, solo 93.000 sono donne, distribuite in maniera disomogenea tra nord e sud, isole comprese.
Focalizzandoci sulla regione Emilia-Romagna: nell’anno accademico 2022/23 sono solo 9.000 le ragazze iscritte presso gli Istituti Tecnologi, ancora in netta minoranza rispetto alla controparte maschile che conta circa 34.700 studenti, ma comunque in crescita rispetto ai 5 anni precedenti, quando le studentesse erano appena 6.000.
Ancora oggi molte ragazze esitano ad intraprendere carriere come quella della progettista, privandosi di nuove ed importanti opportunità professionali, all’interno di una regione che, come sottolinea il presidente di Confindustria Roberto Bozzi, si caratterizza per una crescente domanda di settore, che supera nettamente il numero di tecnici specializzati presenti.
Ma cosa significa essere una progettista all’interno di un mondo prevalentemente maschile e quali sono le opportunità che questo settore offre alle nuove generazioni?
Ne parliamo con una professionista del settore, Monica Foglio Stobbia, Project Engineer di Lameplast S.p.a..
Buonasera Monica e grazie di aver accettato il nostro invito. Partiamo dall’inizio: suo padre era un Direttore Tecnico. Quali sono i ricordi più significativi del suo lavoro e quali influenze ha avuto sul suo percorso professionale?
Mio padre si è diplomato da privatista nel dopoguerra, studiando presso un Istituto Tecnico Tessile in Piemonte. Partendo come operaio, ha fatto un’importante gavetta che lo ha portato a diventare Direttore Tecnico di una ditta a Casablanca, in Marocco, dove ci siamo trasferiti nel 1971. Infatti, è lì che ho svolto tutto il mio percorso scolastico, dalla materna al diploma.
La sua esperienza mi ha influenzato molto.
Cosa l’ha spinta ad intraprendere gli studi in meccanica?
Volevo avere la matita in mano, ma a Casablanca non esisteva il Liceo Artistico. Così, guidata da una grande passione per l’arte e per i lavori manuali, ho deciso di iscrivermi ad un Liceo Tecnico, che era l’equivalente dell’Istituto Tecnico Meccanico in Italia.
Com’era per una ragazza studiare all’interno di un Istituto Tecnico negli anni ’80?
Non ero l’unica donna! Già negli anni ’80 in Marocco eravamo 3 ragazze su 10 studenti.
Può sorprendere considerando che in Italia le classi degli istituti tecnici sono quasi totalmente composte da ragazzi.
Ancora oggi persiste l’idea che l’unica opzione per le ragazza agli Istituti Tecnici sia il percorso “Moda”, ma non è così.
Perché solo Moda? Esistono anche meccanica, elettronica, informatica, ci sono tantissime possibilità, anche per le ragazze.
Se all’interno delle Università il trend sta un po’ cambiando, con molte più donne iscritte ad Ingegneria (attualmente il 25% degli iscritti a Ingegneria sono donne – Fonte bureauveritas.it), gli Istituti Tecnici sono ancora appannaggio maschile, con la conseguenza che diventa difficile vedere nascere delle progettiste.
Io stessa, in questi 37 anni di lavoro, raramente ho avuto modo di incontrare altre donne all’interno dei team e degli Studi Tecnici con i quali ho collaborato.
Com’è stato il suo ritorno in Italia una volta completati gli studi in Marocco?
Traumatico. Personalmente avrei voluto andare in Francia, dove ero stata già ammessa alle Università di Grenoble, Montpellier e Toulon. Questa scelta avrebbe avuto molto senso, sarebbe stata la continuazione logica dei miei studi, ma per motivi famigliari sono dovuta tornare in Italia, dove i miei genitori mi hanno indirizzata verso l’Istituto Superiore di Scienze dell’Automobile a Modena.
Così, ho frequentato a Modena il biennio parauniversitario ad indirizzo meccanico, dove ero l’unica ragazza (l’indirizzo di design vedeva già qualche quota rosa in più).
All’inizio è stata dura: mi trovavo da sola e soprattutto impreparata a vivere in Italia perché, pur essendo il mio paese, non mi sentivo culturalmente italiana e vivevo con la sensazione di essere stata “sradicata” dal paese che ritenevo mio, il Marocco. Però i miei studi sono andati molto bene.
Quando ha deciso definitivamente di voler diventare una progettista meccanica? Ci sono stati momenti di dubbi o ripensamenti?
Nel 1987 il Direttore dell’Istituto, che soddisfatto dei miei risultati, mi aveva presentata alla Carrozzeria Autodromo Modena, che si occupava di produzione di veicoli speciali e autobus, dove ho iniziato a lavorare appena finiti gli studi.
Qui ho fatto molta gavetta. Ero l’unica donna, spesso mi ritrovavo a fare le fotocopie dei disegni su lucido. Però, piano piano sono riuscita a farmi notare e mi hanno inserito nel Team di Ricerca & Sviluppo. È lì che il lavoro di progettista ha iniziato finalmente ad appassionarmi.
La mia fortuna è stata quella di trovare un responsabile con tante idee in testa e tanto spirito di collaborazione: lì ho imparato davvero a ideare, progettare e, soprattutto, mettermi in gioco.
Com’è poi continuato il suo percorso professionale?
Nel 2003 la ditta per la quale lavoravo e della quale, nel mentre, ero diventata socia, chiuse. In quel momento la mia difficoltà fu quella di essere molto competente, ma in un solo settore: ero stata all’interno di quell’azienda per 16 anni.
Così, con grande spirito di adattamento, e un po’ di intuito femminile, mi sono rimessa in gioco. Dopo 3 mesi dalla chiusura dell’azienda precedente sono riuscita ad ottenere un colloquio presso la realtà in cui lavoro ancora oggi.
Per la posizione era richiesto l’utilizzo del software PRO-E, oggi Creo Parametric, che io non conoscevo. Mi studiai il software velocemente, anche grazie all’aiuto proprio di Alessandro Caltabellotta di Project, ed ottenni il posto.
Per il titolare dell’epoca il fatto di assumere un tecnico donna non era molto rassicurante, tanto che volle farmi fare una settimana di prova. Dopo 20 anni, sono ancora qui.
Una donna alle prime esperienze, come è stata accolta nel settore tradizionalmente maschile della meccanica?
Onestamente, non ho percepito grandi differenze. La prima ditta dove ho lavorato era cooperativa e una realtà filocomunista in cui erano importanti più che altro i risultati, le competenze, la voglia di imparare e di mettersi in gioco, dove ho trovato un giusto atteggiamento verso tutti i dipendenti, indistintamente.
L’unica vera sfida che ho incontrato è stata quella di farmi accettare in officina. Per un progettista, sia uomo che donna, avere un dialogo con l’officina è fondamentale. Sono loro che realizzano ciò che noi disegniamo e i loro feedback sono essenziali per poter svolgere bene il nostro lavoro e migliorarci.
Da questo punto di vista ho, forse, goduto di un vantaggio: mentre i progetti dei miei colleghi uomini ricevevano quasi sempre commenti, spesso anche molto negativi; verso di me c’era una sorta di rispetto, per il quale i miei lavori non venivano quasi mai criticati, forse perché per paura delle critiche li controllavo più volte prima di darli in esecuzione.
A parte questo, ripeto, in entrambe le mie esperienze mi sono trovata all’interno di un ambiente “del fare”, molto meritocratico da un punto di vista pratico. Non so se questo dipende dalla storia socioculturale dell’Emilia-Romagna, ma per me è stato così.
Pensa che la paura di trovarsi all’interno di un ambiente “troppo al maschile” possa essere il fattore chiave che blocca tante ragazze nella scelta di un Istituto Tecnico e, successivamente, nell’avvio di una carriera come progettista?
Credo di sì, penso che sia proprio questo timore a bloccare tante ragazze nell’intraprendere un percorso scolastico e professionale tecnico.
Sicuramente le istituzioni e le famiglie devono rivedere queste convinzioni.
I percorsi orientativi delle scuole medie dovrebbero mostrare alle studentesse com’è davvero questo settore. Penso che ci siano molte possibilità per chi ha questa propensione, per chi ha passione e per chi desidera lavorare all’interno di un ambiente meritocratico e formativo.
Mi auguro che sempre più ragazze possano scoprire, conoscere e appassionarsi davvero al mondo della progettazione.
Ritiene che sia più facile farsi valere oggi rispetto agli inizi della sua carriera? Quali sono le principali differenze?
È cambiato molto rispetto a quando ho iniziato la mia carriera. Oggi è tutto più veloce, lo vedo anche con i miei figli. A livello scolastico vengono studiate tante materie, ma gli studi non vanno mai davvero in profondità.
Inoltre, oggi si disegna davvero poco. Prima era necessario avere il progetto in testa in maniera chiara per poterlo realizzare. Ora tra PC e software, è impossibile avere una visione realmente completa di ciò che si sta ideando.
Mi accorgo che tanti progettisti junior non hanno chiare le dimensioni di ciò che stanno realizzando e tendono a mettere in secondo piano il lato tecnico/artistico di questo lavoro. Servirebbe più tempo per poter mettere i ragazzi davvero alla prova, insegnandogli le basi e l’importanza del disegno.
Come donna, pensa che ci sia una sensibilità particolare o un altro aspetto che la favorisce nell’iter della progettazione rispetto a un collega uomo?
A parità di competenze, sicuramente sì. L’ho notato soprattutto all’interno del Team di Ricerca & Sviluppo. Noi donne riusciamo a visualizzare meglio la parte strategica.
Quando mi viene posto un quesito o devo lavorare ad un determinato argomento, non mi focalizzo solo sulla soluzione, ma riesco a pensare al di fuori del singolo task, anticipando eventuali problemi e critiche.
Penso che questo possa essere un grande plus che molte future progettiste potrebbero offrire all’interno delle realtà di settore. Serve solo il coraggio di buttarsi.
C’è qualcosa in cui invece si è sentita limitata per il suo essere donna?
Professionalmente, no.
Esteticamente invece ho sempre cercato di limitarmi quasi nascondendo il mio lato femminile. Poco trucco, pochi colori, poche gonne e zero tacchi. Ho voluto mostrarmi sempre neutra, mettendo in mostra solo le mie competenze.
Guardando al futuro, per le ragazze delle scuole superiori consiglierebbe un Istituto Tecnico o un Liceo per proseguire ad Ingegneria?
Personalmente, consiglierei di frequentare un Istituto Tecnico anche a chi desidera poi frequentare Ingegneria.
Anche qui, però, il problema è un sistema scolastico anacronistico. I ragazzi e le ragazze che frequentano gli Istituti arrivano all’Università con poche conoscenze in ambito matematico; viceversa, chi ha frequentato il Liceo Scientifico conosce la matematica ma non ha le basi complementari per approcciarsi alla parte tecnica.
Credo che dovrebbe esserci una maggiore comunicazione tra Scuola Superiore ed Università, per permettere ai ragazzi e alle ragazze di formarsi in maniera più completa e aprirsi così a più possibilità professionali.
Prima di salutarci, quali sono i suoi obiettivi professionali e personali per il futuro?
Ogni giorno entro in ufficio con la stessa voglia e lo stesso entusiasmo di 37 anni fa. Adesso sto prendendo parte a un progetto molto grande e che mi dà molta soddisfazione. Vederne la conclusione sarà il coronamento della mia carriera.
Ha un consiglio per le ragazze che non sanno che percorso professionale intraprendere e sono spaventate dal mondo tecnico e meccanico?
Sì, quello di seguire le proprie passioni uscendo da schemi mentali retrogradi che ancora oggi sono troppo presenti quando parliamo di formazione e lavoro, soprattutto a scuola e in famiglia.
Valutare ogni prospettiva: ci sono tanti ambiti che magari non vengono presi in considerazione, all’interno dei quali è davvero possibile mettersi in gioco, anche grazie al nostro essere donne.
Ringraziamo Monica Foglio Stobbia, Project Engineer presso Lameplast S.p.a. per aver condiviso con noi la sua esperienza di progettista donna, all’interno di un mondo prettamente maschile, e speriamo che le sue parole possano far nascere riflessioni, spunti ed iniziative, anche al di fuori di questa pagina.